Ferie non godute? Vanno pagate

La Corte di Giustizia dell’Ue, intervenuta su una questione sollevata dal Tribunale di Lecce, impone di pagare le ferie non godute ai dipendenti pubblici, sanitari e farmacisti compresi. Ecco un’autorevole analisi della recente sentenza, che potrebbe comportare un “buco di 4 miliardi di euro” per la nostra Sanità

La Corte di Giustizia dell’Unione Europea ha stabilito che ai pubblici dipendenti, ivi compresi i sanitari, spetta l’indennità sostitutiva per le ferie annuali non godute per cause indipendenti dalla loro volontà. Questa sentenza -del 18 gennaio 2024- di grande interesse per i riflessi sulla sanità pubblica e soprattutto per le spettanze di medici, farmacisti e infermieri, era stata segnalata e approfondita dal quotidiano “La Stampa” del 7 febbraio 2024, in un articolo a firma Paolo Russo. Anche i sindacati hanno espresso la loro soddisfazione.

La Corte era stata adita dal Giudice nazionale -il Tribunale di Lecce- nel corso di un giudizio nel quale un dipendente del Comune di Copertino, dimissionario per pensionamento anticipato, si lamentava che non gli fosse stato riconosciuto il pagamento dell’indennità per le ferie non godute. Il Comune sosteneva, invece, che il rifiuto fosse del tutto legittimo, in quanto fondato sul disposto dell’art 5, comma 8, del Decreto Legge del 6 luglio 2012 n. 95. Tale norma dispone che “Le ferie, i riposi ed i permessi spettanti al personale anche di qualifica dirigenziale delle amministrazioni pubbliche… sono obbligatoriamente fruiti secondo quanto previsto dai rispettivi ordinamenti e non danno luogo in nessun caso alla corresponsione di trattamenti economici sostitutivi. La presente disposizione si applica anche nel caso di cessazione del rapporto di lavoro per mobilità, dimissioni, risoluzione, pensionamento e raggiungimento del limite d’età.

Il Tribunale di Lecce, prima di pronunciarsi nel merito, nutrendo dubbi sulla compatibilità della disposizione di legge con fonti normative dell’Unione Europea, ha adito in via pregiudiziale la Corte di Giustizia dell’Ue, per avere un’interpretazione dell’articolo 7 della Direttiva comunitaria 2003/88 e dell’art. 31, paragrafo 2, della Carta dei Diritti Fondamentali dell’Ue, per poter valutare la specifica normativa interna, che sembrava escludere il ricorrente dal preteso pagamento dell’indennità per ferie non godute. Il giudizio interno veniva così sospeso, in attesa che la Corte di Giustizia risolvesse la questione interpretativa, rilevante per la decisione della controversia.

Questione incidentale

Chiariamo, innanzitutto, in che cosa consiste il procedimento pregiudiziale instaurato dinanzi alla Corte Ue. La facoltà esercitata dal Tribunale di Lecce che, nel caso di giurisdizioni di ultimo grado diventa un obbligo, è prevista dall’articolo 267 del Tfue (Trattato sul Funzionamento dell’Unione Europea). Secondo tale articolo, il giudice nazionale applica di norma il diritto dell’Unione Europea quando un determinato caso lo richieda. In particolare, applica le disposizioni dei cosiddetti Regolamenti comunitari, che sono direttamente applicabili dal giudice nazionale come le disposizioni di legge interne e, nel caso di conflitto, prevalgono su quelle nazionali, se si tratta di materia di competenza comunitaria.

Possono però sorgere dei dubbi interpretativi sulla normativa comunitaria, soprattutto quando non c’è una chiara disposizione di regolamento comunitario direttamente applicabile, ma, come nel caso di specie, si tratta di una Direttiva che crea obblighi di attuazione per gli Stati membri. Di fronte a questa evenienza, il Giudice nazionale che ha dubbi interpretativi può disporre il rinvio pregiudiziale alla Corte di Giustizia, depositaria della corretta interpretazione del Diritto Comunitario. Così il Tribunale di Lecce, sospendendo il giudizio interno in corso, si è rivolto alla Corte di Giustizia Ue, evidenziando la rilevanza della questione interpretativa per risolvere il giudizio interno, ponendo i seguenti due quesiti:

1) Se l’art. 7 della Direttiva 2003/88 e l’art. 31 §2 della Carta dei Diritti Fondamentali dell’Unione europea (cosiddetta Carta di Nizza) debbano essere interpretati nel senso che ostino a una normativa nazionale che, per esigenze di contenimento della spesa pubblica, nonché organizzative del datore di lavoro, preveda il divieto di monetizzare le ferie in caso di dimissioni volontarie del lavoratore pubblico dipendente.

2) Se, in caso di risposta affermativa al primo quesito, le disposizioni comunitarie debbano essere interpretate nel senso di richiedere che il dipendente pubblico dimostri l’impossibilità di fruire delle ferie nel corso del rapporto.

Faceva poi presente che la nostra Corte Costituzionale, con la sentenza n. 95 del 2016, aveva ritenuto che l’art. 5, comma 8, del Decreto Legge n. 95, applicabile ai dipendenti pubblici, nello stabilire alcuna monetizzazione per le ferie retribuite non godute, non fosse in contrasto con norme della Costituzione, né violasse il diritto della Ue, tenuto conto delle esigenze di contenimento della spesa pubblica, nonché dei vincoli di organizzazione per il datore di lavoro pubblico. Rilevava, altresì, che tale normativa mirava ad arginare il ricorso incontrollato alla monetizzazione delle ferie non godute, nonché a riaffermare la preminenza dell’effettivo godimento delle ferie.

In questo contesto, si poneva l’esigenza dell’interpretazione della Corte Ue dell’art. 7 della Direttiva, al fine di verificare la compatibilità della nostra legge nazionale e cioè dell’art. 5, comma 8, del Dl del 6 luglio 2012 n. 95, il quale dispone il divieto di monetizzare le ferie anche nel caso nel quale al dipendente pubblico restasse la sola possibilità di un’indennità sostitutiva, mancando quella di godimento effettivo per cessazione del rapporto. La questione da risolvere si poneva, nel giudizio in corso, per le ferie del dipendente comunale da ultimo maturate che, per la risoluzione del rapporto conseguente alla sua richiesta di pensionamento anticipato, non avrebbero comunque più potuto essere godute.

Le specifiche fonti di Diritto europeo richiamate nei due quesiti erano:

1) l’art 31 della Carta dei Diritti Fondamentali dell’Unione Europea (cosiddetta Carta di Nizza), che ha per oggetto Condizioni di lavoro giuste ed eque e tra queste indica espressamente al §2 il diritto a ferie annuali retribuite;

2) La Direttiva n. 88 del 2003, che stabilisce all’art. 7: “Gli Stati Membri prendono le misure necessarie affinché ogni lavoratore benefici di ferie annuali retribuite di almeno 4 settimane, secondo le condizioni di ottenimento o di concessione previsti dalla legislazione o prassi nazionale. Il periodo minimo di ferie annuali retribuite non può essere sostituito da un’indennità finanziaria, salvo il caso di fine del rapporto di lavoro”.

Motivazione della decisione

La Corte Ue ricorda come il diritto del lavoratore a ferie annuali retribuite debba essere considerato un principio particolarmente importante del diritto sociale dell’Unione Europea, al quale non si può derogare, come più volte affermato anche in precedenti pronunce che vengono espressamente citate e che la regolamentazione di tale diritto da parte delle autorità nazionali competenti deve avvenire nell’ambito dei limiti espressamente indicati dalla citata Direttiva.

E l’art. 7 della Direttiva, infatti, riflette e concretizza questo diritto fondamentale a un periodo annuale di ferie retribuite sancite dall’art. 31, paragrafo 2, della Carta di Nizza. Di tal che gli Stati membri possono definire nella loro normativa interna le condizioni di esercizio del diritto alle ferie annuali retribuite, precisando le circostanze concrete in cui i lavoratori possono avvalersene, tuttavia tenendo conto del fatto che l’art. 7 non assoggetta il diritto all’indennità finanziaria ad alcuna condizione diversa da quella relativa, da un lato alla cessazione del rapporto di lavoro, e dall’ altro al mancato godimento da parte del lavoratore di tutte le ferie annuali alle quali aveva diritto alla data di cessazione del rapporto.

Pertanto, se l’art. 7 §1 della Direttiva non è di ostacolo a una normativa nazionale che stabilisca le modalità di esercizio del diritto alle ferie annuali retribuite, che comprenda finanche la perdita del diritto allo scadere del periodo di riferimento, tuttavia ciò può avvenire solamente se il lavoratore che ha perso il diritto alle ferie annuali retribuite abbia effettivamente avuto la possibilità di esercitare il diritto stesso, così come riconosciuto dalla Direttiva.

Così argomentando la Corte, pur riconoscendo che è possibile reprimere il ricorso incontrollato alla monetizzazione delle ferie, afferma che non lo si può collegare alla cessazione del rapporto di lavoro, anche se per dimissioni volontarie. Se invece -afferma testualmente la Corte Ue- il lavoratore, deliberatamente e con piena cognizione delle conseguenze che ne sarebbero derivate, si è astenuto dall’usufruire delle ferie annuali retribuite, dopo essere stato messo in condizione di esercitare questo suo diritto, la normativa comunitaria non osta a una normativa interna di perdita del diritto e dell’indennità sostitutiva nel caso di cessazione del rapporto. Comunque sia, l’onere della prova fa capo al datore di lavoro, che è tenuto ad assicurarsi che il dipendente sia nell’effettiva condizione di usufruire delle ferie.

Dalle motivazioni della Corte appare evidente che, nel giudizio interno, si dovrà accertare se il dipendente comunale sia stato messo nelle condizioni di usufruire delle ferie delle quali reclama l’indennità sostitutiva, e di ciò l’onere della prova sarà a carico del Comune di Copertino. Le indicazioni date dalla Corte di Giustizia, oltre a vincolare il Giudice che ha sollevato la questione (Tribunale di Lecce), costituiranno anche un canone interpretativo da seguire in altri analoghi giudizi.

C’è da dire, però, che già da prima della pubblicazione della sentenza della Corte Ue qui in commento, alcuni giudici nazionali avevano seguito questa linea interpretativa. In particolare, la Corte di Cassazione con la sentenza n. 21780 (Sez. Lavoro) dell’8 luglio 2022, richiamando i principi del Diritto comunitario aveva ritenuto che la perdita definitiva delle ferie, anche come indennità sostitutiva, possa verificarsi alla fine del rapporto di lavoro soltanto qualora il datore di lavoro offra la prova di avere invitato il lavoratore a godere delle ferie (se necessario formalmente) e di averlo nel contempo avvisato che, in caso di mancata fruizione, le ferie sarebbero andate perse al termine di un periodo di riferimento o di un periodo di riporto autorizzato.

E proprio in applicazione di questi principi, la Cassazione -in una controversia tra un medico, che era stato dirigente dell’Asl di Pescara e che, reclamando da quest’ultima l’indennità sostitutiva di ferie non godute alla cessazione del suo rapporto di lavoro, avvenuta in data 30 aprile 2015, aveva visto respinta la sua domanda, sia in primo che in secondo grado- emetteva un’ordinanza di rinvio del giudizio alla Corte d’Appello (ord. della Sez. Lavoro della Corte di Cassazione n. 32807 del 27 novembre 2023), perché valutasse se il medico fosse o meno stato messo nell’effettiva condizione di godere delle ferie in tempo utile prima della cessazione del rapporto.

Sintesi conclusiva

In conclusione, in presenza di una disposizione che sembrerebbe escludere il ricorso a indennità sostitutiva delle ferie -anche nel caso in cui non siano state effettivamente godute e non sia comunque più possibile il loro effettivo godimento- si è rivelato particolarmente opportuno che il Tribunale di Lecce abbia sollevato la questione di conformità Comunitaria dinanzi alla Corte di Giustizia, in relazione alla specifica questione che di fatto si poneva su di un rapporto di lavoro risolto per volontà del dipendente, con il ricorso al pensionamento anticipato.

È da considerare, infatti, che la Corte Costituzionale, nella ricordata sentenza n. 95 del 2016 aveva ritenuto non fondata la questione di Costituzionalità sollevata sull’art. 5 del Dl n. 95 del 2012, sul presupposto che il tassativo divieto di corrispondere l’indennità sostitutiva delle ferie non godute (con conseguenze di responsabilità disciplinare e amministrativa in caso di sua corresponsione), andasse interpretato nel senso di non ricomprendervi il caso in cui il dipendente non fosse stato messo in condizione di poter usufruire concretamente delle ferie.

La questione non chiarita, che dava origine a giurisprudenza contrastante, restava quella della cessazione del rapporto di lavoro per dimissioni volontarie del dipendente. Secondo il ragionamento delle amministrazioni pubbliche e di alcuni giudici, cessando il rapporto di lavoro per volontà del dipendente, quest’ultimo si sarebbe dovuto organizzare per godersi le ferie residue e mettere in ogni caso in conto la loro perdita, come conseguenza della sua iniziativa volontaria. Quindi, nessun diritto d’indennità sostitutiva poteva sorgere.

Il caso risolto dalla Corte di Giustizia Ue, riguardava proprio ferie non godute in prossimità della cessazione del rapporto, per un pensionamento anticipato chiesto dal dipendente.

Secondo l’amministrazione, quindi, risolvendo il rapporto di lavoro il dipendente avrebbe rinunciato alle ferie ancora spettanti e così il mancato godimento non sarebbe dipeso dall’amministrazione, ma dall’unilaterale risoluzione del rapporto. Ora però, dopo la sentenza della Corte di Giustizia, non è più possibile ricollegare alla volontarietà della cessazione del rapporto di lavoro la perdita dell’indennità per le ferie residue, per le quali l’unica forma di soddisfazione possibile resta ormai la loro monetizzazione.

Anche dopo quest’ultima sentenza della Corte di Giustizia non si può ritenere che il divieto di monetizzare le ferie non godute sia del tutto bandito. Resta fermo il principio dell’obbligatorietà dell’effettivo godimento, che non può essere sacrificato per specifiche esigenze organizzative e quindi, nel caso che il godimento non sia più materialmente possibile, resta necessariamente almeno il diritto all’indennità sostitutiva. Ma, quando il mancato godimento dipende esclusivamente dalla scelta del dipendente di non usufruire delle ferie (e in questa non si può ricomprendere la sua scelta di porre fine al rapporto di lavoro), il diritto si perde senza possibilità di monetizzare con indennità sostitutiva.

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